18 marzo
La mancata perquisizione in via Gradoli. La seconda telefonata dei brigatisti al Messaggero. La foto di Moro ed il comunicato n°1. I funerali dei cinque uomini della scorta di Moro. L'assassinio a Milano di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci.
La mancata perquisizione di via Gradoli
Alle sette di mattina, del 18 marzo gli uomini del commissariato Flaminio iniziano a suonare alle porte degli appartamenti dello stabile di via Gradoli 96.
In quel palazzo, al secondo piano, interno 11, c’e una delle principali basi delle Br a Roma, che in quel momento ospita Mario Moretti, membro del comitato esecutivo e capo della colonna romana, di fatto colui che gestisce il rapimento Moro. Assieme a Moretti c’è Barbara Balzerani, unica donna del commando che ha eseguito l’attacco di via Fani.
Secondo quanto affermato successivamente dalla polizia e dal magistrato Infelisi, alla base della operazione non c’era nessuna segnalazione ma si trattava di un controllo rientrante in una più vasta operazione riguardante tutti i mini appartamenti del quartiere. Sempre secondo le forze dell’ordine in caso di case chiuse non era previsto l’abbattimento della porta.
La squadra di poliziotti che esegue l’ordine è comandata dal brigadiere Domenico Merola e composta dal vicebrigadiere Di Spirito, dagli appuntati Colucci e Firmali e dalla guardia Di Muccio. L’operazione che, susciterà non poche polemiche, dura l’intera mattina e, secondo quanto riportato nell’ordine di servizio, vengono identificate 17 persone. La nota redatta alla fine precisa “Numerosi appartamenti sono stati trovati chiusi, sul conto degli abitanti nulla essendo emerso a loro carico, non si e proceduto ad aprire con la forza”. Tra gli appartamenti chiusi, evidentemente c’è anche l’interno 11, il covo Br.
Nella casa accanto al covo brigatista, all'interno 9, abita la signora Lucia Mockbel, che dopo essere stata identificata ed aver fornito informazioni generiche sugli abitanti dell'interno 11, segnala ai poliziotti un fatto strano. Nella notte ha sentito provenire dalla finestra dei rumori “particolari”: un ticchettio, che lei identifica in segnali Morse. Aiutata dai poliziotti compila anche un bigliettino sulla circostanza, che prega di recapitare al dottor Cioppa funzionario del commissariato Flaminio e suo conoscente. Del biglietto si perderà ogni traccia.
La mancata perquisizione il 18 marzo, la scomparsa del biglietto della Mockbel, insieme alla scoperta del covo brigatista a seguito di una perdita d'acqua, e il nome Gradoli, segnalato da Romano Prodi a seguito di un'indicazione durante una seduta spiritica, che porto alla perquisizione del paese di Gradoli e non dell'omonima via, sono al centro di molte interpretazioni e polemiche e fanno di via Gradoli uno dei punti nevralgici dell'intera vicenda Moro.
Gli intellettuali e il rapimento Moro
Sul Corriere della Sera a firma di Cesare Madail appare un articolo sul mancato intervento degli intellettuali riguardo al rapimento di Moro e l'assassinio dei cinque agenti . Ci si chiede “viltà o bisogno di riflessione? e si interrogano alcuni esponenti del mondo della cultura. Si riportano parti dell'articolo.
Italo Calvino risponde: "Ciò che è accaduto va al di la delle parole. Abbiamo esaurito ogni capacita di commento. Che cosa si può dire? Sono molto preoccupato per il futuro delle nostre libertà democratiche che oggi sono il bersaglio di un complotto di vaste proporzioni la cui matrice rimane sempre più oscura. Comunque un fatto positivo sono le manifestazioni dell'altro ieri: si sente crollare tutto ma la gente ha reagito bene".
Franco Fortini, invece, dice che non ha sentito il bisogno di intervenire a caldo perché "da mesi si discute sui giornali del terrorismo e nulla di nuovo è da aggiungere". In sede di analisi non vede differenza con "altri macelli" (quando hanno sparato a Casalegno per esempio).
La prima risposta di Lucio Colletti alla domanda sul silenzio degli intellettuali è ovvia: "probabilmente non ci hanno interpellato". Poi però aggiunge: "Una parte del mondo intellettuale cosiddetto "impegnato", da tempo manifesta una tendenza elusiva rispetto ai problemi della società civile, salvo che non si possano strumentalizzare in qualche modo".
L'accusa più dura agli intellettuali e ai loro silenzi viene da Carlo Cassola: "Un fatto del genere, per quanto atroce, calamita l'attenzione della gente sull'ordine pubblico, scatena emotività come non la scatena invece l'episodio del Cosmos o il massacro dei palestinesi ad opera degli israeliani avvenuto in questi giorni. Il problema che ci sta davanti è quello della pace. I silenzi degli intellettuali avrebbero dovuto essere presenti e non lo sono stati, dal 1945, dopo Hiroshima"
La seconda telefonata di Morucci
Malgrado la telefonata del giorno precedente fatta da Morucci al Messaggero, sul primo comunicato delle BR non è stata data nessuna notizia.
I brigatisti iniziano a pensare che si voglia operare un blocco dell’informazione. In mattinata Morucci e Faranda raggiungono Largo Argentina e con la massima attenzione scendono nel sottopassaggio. Con la tensione al massimo sbirciano sopra la macchina delle fotocopie: la busta arancione e ancora li. Lo sconcerto aumenta.
Poco dopo mezzogiorno, da una cabina pubblica, Morucci telefona al centralino del Messaggero e chiede di Ezio Pasero. Quando il giornalista risponde alla chiamata sente dall’altra parte della cornetta una voce con un leggero accento romanesco che si qualifica:«Sono le Brigate Rosse». All’affermazione che il messaggio non e stato trovato, Morucci risponde «Il messaggio e ancora li, nel sottopassaggio tra Largo Argentina e Via Arenula, sul tetto della macchina delle fotocopie, sotto un mucchio di cartacce c’e una busta gialla di tipo commerciale” Le indicazioni questa volta sono precise e il giornalista Maurizio Salticchioli trova immediatamente la busta arancione.
Il comunicato n°1 e la foto di Moro
Nella busta fatta ritrovare dalle BR c’è il primo messaggio delle BR e una foto Polaroid. Nella fotografia Aldo Moro indossa una camicia bianca, il colletto slacciato lascia intravedere la maglietta della salute. Alle sue spalle, su un drappo scuro appoggiato alla parete, incombe minacciosa la stella a cinque punte delle “Brigate Rosse”. Sul volto, ripreso in primo piano non c’e nessun segno di paura. In quegli occhi tristi che fissano l’obiettivo si legge, invece, lo smarrimento e la consapevolezza che, quella che ha di fronte, e la prova più difficile che il destino poteva riservargli.
Il comunicato n° 1 è formato da due paginette fitte, fitte battute a macchina in cui si cercano di spiegare i motivi dell’azione brigatista. L’apertura, dopo aver ricordato l'eliminazione degli uomini della scorta, ovvero le "teste di cuoio di Cossiga", è dedicata al prigioniero catturato e rinchiuso nella prigione del popolo. “Chi è Aldo Moro, e presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi e stato fino ad oggi il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di quel regime democristiano che da 30 anni opprime il popolo italiano” . ll comunicato poi si dilunga sul SIM il Sistema Imperialista delle multinazionali e sulla Dc identificata come “la forza centrale e strategica della gestione imperialista dello Stato”.
I funerali degli uomini della scorta.
Nel pomeriggio si svolgono i funerali degli uomini della scorta. Dentro le cinque bare, allineate sul pavimento della basilica di San Lorenzo fuori le mura, ci sono i corpi delle ultime vittime del terrorismo. Persone semplici che hanno scelto un lavoro difficile per guadagnarsi da vivere. Oscuri difensori dello Stato che rischiano la vita in cambio di uno stipendio più che modesto. I loro nomi, sconosciuti come quelli di migliaia di altri, sono diventati improvvisamente famosi all'incrocio tra via Fani e via Stresa
Gli uomini della scorta uccisi in via Fani. Da sinistra: Giulio Rivera, Francesco Zizzi, Raffalele Iozzino, Domenico Ricci, Oreste Leonardi,
Oreste Leonardi, era da oltre dieci anni al seguito di Moro. Nonostante non avesse la qualifica di caposcorta, era lui che organizzava la protezione intorno ad Aldo Moro. A piangerlo, adesso, ci sono la moglie Ileana, e la figlia Cinzia, una bella ragazza di 17 anni che, ad un tratto, si divincola dalle mani affettuose di due ufficiali dei carabinieri e si getta sulla bara.
La moglie di Domenico Ricci, l’autista che da oltre vent’anni era al servizio di Moro, stringe a se i due figli: Gianni e Paolo di dodici e dieci anni, e piange sommessamente
Giulio Rivera e Raffaele Jozzino erano due dei tanti ragazzi del meridione per cui l’arruolamento in polizia è quasi una scelta obbligata per fuggire alla disoccupazione e sperare in un futuro migliore.
Rivera, ventiquattro anni, nato a Guglionisi in provincia di Campobasso, era appena ritornato da una licenza ottenuta per accompagnare in ospedale il padre che deve sottoporsi ad un delicato intervento chirurgico. E adesso il padre è li, nei primi banchi della chiesa e guarda impietrito la bara con dentro il suo Giuliano. Alla notizia dell’agguato ha lasciato, l’ospedale e, contro il parere dei medici, è corso a Roma.
Accanto alla bara, seduta su una sedia di paglia, c’e la mamma di Raffaele Jozzino: nessuno e riuscito a farla accomodare nel banco riservato ai parenti «Il mio posto e accanto a Raffaele» ripete ostinata.
Poco distante, la mamma di Francesco Zizzi, il capo scorta, continua a ripetere sottovoce: «Franco, Franco dimmi qualche cosa. Mi hai chiesto tante volte di aiutarti e io sono qui. La pallottola che ti ha ucciso ha ucciso anche me.»
Zizzi era al suo primo giorno di servizio al seguito di Moro. Sarebbe bastato che le Br avessero anticipato di un giorno l’agguato ed adesso sarebbe tra la folla a piangere un collega. Ma il destino colpisce a caso. Lo sanno bene gli uomini della seconda scorta che da giovedì mattina si sentono dei miracolati e continuano a ripetere, quasi vergognandosi dello scampato pericolo:«Potevamo esserci noi».
Alla fine della funzione, quando le bare varcano il portone della basilica e appaiono alla folla assiepata sul piazzale del Verano si alza un lungo intenso applauso. Tra la gente c’e commozione, sgomento e rabbia. Negli stessi istanti cominciano a circolare le prime copie delle edizioni speciali dei giornali con la foto di Moro e il comunicato numero 1 delle B R in cui si afferma: “la scorta armata composta da cinque agenti dei famigerati corpi speciali è stata completamente annientata”.
Nell’incommensurabile distanza tra il dolore provocato da quei cinque morti e la fredda rivendicazione brigatista c’e già tutta l’inevitabile sconfitta della lotta armata.
Fausto e Iaio: morire a diciotto anni
Milano, Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci, da tutti conosciuto come Iaio, sono, due ragazzi, hanno poco più di 18 anni, frequentano il centro sociale Leoncavallo e sono impegnati nella preparazione di un dossier sulla droga che imperversa nel quartiere.
Sono circa le otto di sera, percorrono Via Mancinelli, una strada poco illuminata nel popolare quartiere del Casoretto. A metà strada sono bloccati da tre giovani che procedono in senso inverso. La strada e deserta. Uno dei giovani che indossa un impermeabile chiaro con il bavero alzato, forse chiede qualcosa. Fausto e Lorenzo non hanno il tempo di rispondere, nell’aria si sentono delle esplosioni. Sono gli otto colpi di una pistola Winchester 7,65. Fausto è colpito da cinque proiettili all’addome, al torace e al braccio destro, e si accascia su se stesso in mezzo alla strada. Lorenzo tenta una fuga disperata ma anche lui, centrato dai colpi sparati con perizia professionale, crolla sul marciapiede.
I primi soccorritori hanno davanti una scena tremenda. I due giovani sono riversi a terra in un lago di sangue. Fausto, respira ancora ed e caricato su un'auto per una disperata quanto inutile corsa verso l'ospedale. Per Iaio non c'è niente da fare, resta li sull'asfalto. In pochi minuti la via è un brulicare di persone che osservano attonite quel telo bianco che pietosamente copre il corpo di Iaio. Gli abitanti del quartiere sono tutti li.
Il titolo del Corriere della Sera del 19 marzo
L’assurda morte di Fausto Tinelli e Lorenzo Iannucci è come una sferzata che ridà voce al popolo della sinistra extraparlamentare rimasto attonito dalla violenza dell’eccidio di via Fani. Appena un’ora dopo l’assassinio dei due ragazzi, Radio Popolare, sommersa dalle chiamate apre i microfoni alle telefonate della gente. E’ un fiume in piena: per tutta la notte si susseguono le voci che esprimono dubbi, rabbia, dolore, che parlano di Fausto e Iaio, che gridano che in Italia non si muore solo per mano delle Brigate Rosse. Si parla anche di Moro, della strage dei cinque uomini della scorta, della violenza assurda dei terroristi. Un grande dibattito che coinvolge tutta quell’area che rivendica il proprio diritto di lottare contro una società ingiusta senza per questo essere accomunata alle Brigate Rosse.